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10 Jan
10Jan

In una recente intervista, il politologo Marco Tarchi ha affrontato la questione che, già diversi anni fa, il politologo Colin Crouch definiva come “postdemocrazia”, ovvero il processo di erosione della centralità dei meccanismi di rappresentanza popolare e il conseguente rafforzamento di lobby economiche-finanziarie, istituzioni sovranazionali e apparati governativi. Secondo Tarchi, il liberalismo non è necessariamente sinonimo di democrazia, e uno sviluppo eccessivo del primo può condurre, secondo pensatori come Alain de Benoist e Aleksandr Dugin, a esiti totalitari. De Benoist e Aleksandr Dugin sono due pensatori contemporanei molto interessanti per il ruolo significativo avuto nel panorama intellettuale europeo e globale, particolarmente in relazione al concetto di “liberalismo” e al suo impatto sulle democrazie moderne. De Benoist, noto fondatore della Nouvelle Droite, ha sviluppato una critica del liberalismo che si concentra sul suo carattere universalista e omologante; Dugin, dal canto suo, ha sviluppato una teoria geopolitica e filosofica che ha come obiettivo quello di contrastare l’egemonia liberale e l’influenza occidentale, con un’attenzione particolare all’importanza della spiritualità e della cultura in una visione del mondo multipolare. La sua concezione del “totalitarismo” può essere vista come una reazione alla globalizzazione e alla diluizione delle identità culturali e politiche locali, che secondo lui sono minacciate dal liberismo e dal pensiero unico. Sebbene il termine “totalitarismo” possa sembrare esagerato, la riflessione di autori come Diego Fusaro e Marcello Veneziani suggerisce una domanda cruciale: come è possibile parlare di pluralismo in un contesto dominato da un’egemonia culturale che ci presenta la realtà come una verità assoluta, alla quale bisogna aderire senza possibilità di disaccordo?In questo scenario, la riscoperta di un filone idealista diventa essenziale, un movimento di pensiero che si è fatto portavoce in Italia, tra gli altri, del compianto Costanzo Preve.Ma l’Italia, più di altri paesi, ha visto nascere due giganti della filosofia idealista: Giovanni Gentile e Julius Evola.L’attualismo gentiliano e l’idealismo magico evoliano rappresentano due filosofie fondamentali che ci insegnano a resistere al pensiero unico, a riaffermare l’importanza di un pensiero critico e libero.In questo contesto, il confronto con Massimo Donà, uno dei più importanti e coraggiosi intellettuali italiani, rappresenta per “Il Talebano” un vero onore.Filosofo allievo di Emanuele Severino e musicista, Donà ha avuto il merito di dedicarsi, con grande lucidità e spirito indipendente, alla riflessione su questi giganti del Novecento. Grazie, professor Donà, per la sua disponibilità. Nel 2020 ha pubblicato il libro “Apologia dell’Immediato. Percorsi evoliani”, incentrato sulla figura di Julius Evola. Vorrebbe parlarci del contenuto di questo studio e delle principali tesi che ha sviluppato?Nel volume che qualche anno fa ho dedicato a Evola ho cercato di mostrare anzitutto come il cosiddetto “Barone” non sia affatto un semplice “erede” della grande tradizione idealistica tedesca; e neppure un epigono della versione italiana dell’hegelismo.Evola è piuttosto un pensatore assolutamente “autonomo”; certo, ha ben precisi e non poco illustri precedenti, ma tutto quello che eredita dal passato, il nostro pensatore-artista lo trasfigura radicalmente, e lo fa diventare cifra di un percorso ancora tutto da disegnare e sviluppare, appunto, secondo le sue direttive.Anzitutto, potremmo dire che quello di Evola è un pensiero che vuole anzitutto farsi “azione concreta”; non gli basta infatti quanto sancito dall’atto gentiliano. A questo punto, infatti, bisognava farsi carico di un gesto “immediato” (non giustificabile né argomentabile), capace di rendere anche sperimentabile quello che troppo a lungo la filosofia aveva continuato a concepire come “atto” puramente immateriale, e dunque astratto, ma soprattutto radicalmente indifferente alla realtà immediata e materiale con cui abbiamo ogni giorno a che fare. Il materiale, il naturale, l’assolutamente altro, infatti, sempre secondo Evola, ci concernono originariamente; ma non per questo vanno concepiti come meri fantasmi dell’Io assoluto, o come qualcosa che l’Io mai potrà spiegare per quel che esso è veramente, in se medesimo.Nessun astratto dualismo, dunque, in Evola. Direi piuttosto che il Barone è riuscito a capire, con una radicalità davvero unica, che la stessa contrapposizione dualismo-monismo lascia il tempo che trova, e dunque va assolutamente superata.A questa conclusione lo conduce in primis il suo cosiddetto “Idealismo magico”; prospettiva che il nostro prende in prestito da Novalis, in quanto convinto del fatto che l’assolutezza dell’Io non sia qualcosa di semplicemente dato (e poi data da chi e da dove?), ma piuttosto qualcosa che va incessantemente “costruito” e “fatto”. Per questo l’alterità del mondo va fatta diventare prodotto reale di un fare originario che non potrà certo limitarsi a ‘trasformarlo’, il mondo. Nulla, infatti, di ciò che riguarda il mondo, è “dato” conformemente ad una qualche “determinatezza”. E dunque la vera “alterità” del mondo (la sua “datità”) riguarda solo ciò che, del mondo medesimo, non sarà mai in alcun modo riconducibile alle sue determinatezze. D’altro canto, è proprio questa indeterminatezza del mondo che va ogni volta determinata, ossia fatta essere in questo o quel modo. Ovvero, fatta iniziare.Insomma, non v’è nulla di già determinato, indipendentemente da me. Certo, il mondo ci è dato, ma non in relazione a ciò che, del medesimo, possiamo senz’altro conoscere, se non addirittura ri-conoscere. Sì, perché tutto, del reale, va per l’individuo assoluto prodotto e ricondotto al suo inizio in virtù di un fare che sia in grado di riconoscersi “assoluto” proprio in quanto originario; e dunque non presupponente alcunché.Ma, ancora più importante è il fatto che per Evola l’Io (quello che lui chiama “individuo assoluto”) debba incessantemente “fare” anzitutto se medesimo. Liberandosi anche dal presupposto (che comunque lo limiterebbe e condizionerebbe) costituito dalla sua stessa assoluta “libertà”. Nulla potendo presentarglisi come “imperativo”, ossia come legge ineludibile. Neppure la sua libertà. L’Io, infatti, è sempre anche condizionato; cioè, ha sempre un limite.Neppure quest’ultimo può infatti mancargli; e sempre in virtù della sua assoluta libertà. Altrimenti si ritroverebbe inevitabilmente condizionato.Insomma, l’Io è sempre anche limitato; e dunque la sua è un’incondizionatezza che non esclude affatto il darsi sempre e comunque da parte di qualche condizionamento. Fermo restando che nessuna condizione potrà mai venire vissuta ‘pacificamente’, dall’individuo in cui si risolve da ultimo l’Io evoliano. L’Io evoliano, insomma – potremmo anche dire –, “è” e “non-è” condizionato; è assoluto, cioè, senza mancare in alcun modo della condizionatezza (tale mancanza, infatti, smentirebbe la sua stessa supposta incondizionatezza).Insomma, è un Io che deve alchemicamente, e comunque incessantemente, rigenerarsi; che non può dunque limitarsi a “fare vuoto”, come avrebbe voluto un certo troppo frettoloso misticismo. L’Io evoliano deve piuttosto sempre e ancora diventare quel che già è; deve sforzarsi (in virtù di uno streben di ascendenza tutta fichtiana), e costruirsi incessantemente, nella concretezza di un fare che, operando sul mondo, operi sempre anche su di lui.Come avrebbe cercato di fare ogni buon alchimista; ossia, ogni vero mago nel senso bruniano del termine. Consapevole almeno del fatto che la forza in grado di farlo diventare finalmente se medesimo non avrebbe potuto evitare di agire in lui trascendendo la sua vigile volontà – allo stesso modo in cui ogni artista agisce “vera-mente” solo nella misura in cui sappia accogliere la forza che lo muove e lo spinge indipendentemente da qualsiasi sua valutazione razionale (Evola lo sa bene perché è stato anche lui artista, soprattutto negli anni giovanili, caratterizzati dall’adesione al movimento dadaista guidato da Tzara).D’altro canto, Evola sa anche che lo stesso ordine razionale destinato a governare ogni forma di esistenza è tutt’altro che razionalmente giustificabile. Insomma, che tutto sia razionale (come avrebbe detto Hegel) non significa affatto che questa intrascendibilità dell’ordine razionale sia in ogni caso razionalmente giustificabile.Insomma, per lui questa intrascendibile razionalità non è affatto razionale.Perciò saremo sempre in balìa di una dialettica che Diano avrebbe riconosciuto come relazione tra “forma” ed “evento” – relazione che nulla ha a che vedere con il rigido schematismo consegnato alla “dialettica” dal pensiero hegeliano.Ed è proprio sulla base di questo incondizionato “movimento”, riconosciuto da Evola nel cuore stesso di tutto quel che è, che, in un capitolo del volume da Lei gentilmente evocato, ho ritenuto di poter parlare di cuore antifascista del fascismo evoliano.Così come ho cercato di far emergere il senso assolutamente paradossale della nozione di razzismo fata propria da Evola – che nulla ha a che fare con le becere versioni biologistiche evocanti un delirante supposto primato della razza ariana. Evola, infatti, in perfetta sintonia con la paradossalità caratterizzante la propria geniale proposta filosofica, sostiene che la vera razza, quella che lui concepisce in una accezione tutta ‘spirituale’, è solo quella ‘culturale’, ossia quella in grado di spingersi ben oltre se medesima. Aprendosi dunque alle più diverse contaminazioni.Allo stesso modo in cui “individuo assoluto” sarà per lui solo quello consapevole di poterlo essere, ‘assoluto’; e di poterlo essere proprio in virtù di un incessante impegno a diventare quel che già sarebbe (Nietzsche docet). Professore Donà, Antimo Negri ha definito Julius Evola “un gentiliano minore”. Essendo lei esperto anche di Giovanni Gentile, a cui ha dedicato un testo dal titolo “Un pensiero sub lime”. Saggi su Giovanni Gentile, cosa pensa del rapporto tra attualismo e idealismo magico?Beh, a dire il vero quella di Negri mi sembra una definizione abbastanza infelice.Sì, perché, pur appartenendo allo stesso universo culturale di cui s’era fatto espressione anche Gentile, Evola inaugura un’epoca spirituale solo parzialmente connessa alla pur inconfutabile matrice idealistica e attualistica della sua ricerca. Certo, la sua ricerca viene senz’altro da lì; ma determina una svolta che non esiterei a definire epocale; o quanto meno ‘decisiva’ e davvero ‘radicale’.Al punto da rendere addirittura erroneo continuare a parlare di “Io”, in Evola. Quello che era l’Io di Hegel e di Gentile, infatti, è diventato in lui, più semplicemente, “individuo”. E non è affatto la stessa cosa. Perché, solo a partire dalla prospettiva dell’individuo assoluto, possono venire nuovamente messe in gioco tutte quelle caratteristiche che tanto da Hegel quanto da Gentile erano state invece risolutamente estromesse dalla ‘forma’ dell’assoluto. Ovvero, la contingenza, la storicità, e finanche la greve materialità; che nessuno spazio avrebbero potuto trovare nella forma originaria dell’assoluto hegeliano, o nel “concreto” gentiliano. Per questi ultimi, infatti, tutto ciò che concerne la mia esistenza individuale (ma potremmo tranquillamente dire “l’esistenza di ogni individuo”) non ha alcun ruolo nello svolgimento dialettico di un vero destinato a cancellare “la storia” a favore di un ben più rigido e unilaterale “destino”. Che, certo, parla del mondo; ma solo in relazione a ciò che, di quest’ultimo, sembra costituirsi come ‘essenziale’, e per ciò stesso riconducibile a quell’eterno di cui la storia sarebbe solo una imperfetta e illusoria manifestazione.Evola, dunque, va ben oltre il platonismo ancora operante tanto in Hegel quanto in Gentile. Per lui a noi, e solo a noi, infatti, ossia, a noi individui reali (o meglio, assoluti proprio in quanto reali), spetta il compito di disegnare il “vero” di cui saremmo in ogni caso espressioni.Perciò il “Barone” finisce per caricarci di una responsabilità fin troppo importante; invitandoci oltretutto a non annullarci affatto, né a riconoscerci realizzati in una massa amorfa e omologata, dipendente dall’uomo forte; da colui il quale sarebbe più semplicemente destinato a scegliere per noi. Evola ritiene insomma che vera espressione dell’assoluto sia proprio l’individuo, e non la massa; l’individuo concepito quale espressione razionale di una radice inguaribilmente irrazionale.Un individuo che dovrà dimostrarsi anzitutto degno della propria assolutezza. E che, per essere in pari con la natura paradossale che gli impedisce di affidarsi a qualsivoglia “ismo”, a qualsivoglia determinazione universale e per ciò stesso ‘astratta’, dovrà affidarsi (come dice lo stesso Evola) alla potenza nuda dell’individuale. Che mai potrà cioè riconoscersi adeguatamente espresso da una qualche forma universalistica, collettiva e necessariamente omologante. Da ciò la volontà di impegnarsi a decostruirle tutte, a vanificarne tutte le improprie pretese, e a farsi sempre “altro” da quel che ogni sua possibile definizione riuscirebbe a dire, del medesimo. Altro, cioè, dall’universalità caratterizzante ogni forma destinata a definirci, dicendo quello che saremmo, in quanto identici a molti altri come noi. E dunque capace di farci fare esperienza del fatto che, solo in relazione a qualcosa di realmente altro, potremo riconoscere quello che siamo davvero; senza che ci venga mai richiesto di evaporare o risolverci in tale immateriale e astratta alterità.Fermo restando che solo in quest’ultima potremo comunque e in ogni caso riconoscerci, riconoscendo in uno l’ineliminabile eccedenza del nostro stesso essere – di un essere, cioè, sempre e comunque impegnato a mostrare di non essere ancora quel che in ogni caso anche già sarà. E dunque di non potersi mai lasciar catturare dall’articolazione inevitabilmente categoriale (e in quanto tale ‘universalistica’) del proprio esserci fenomenico. E dunque dalla circolarità di un dialettismo destinato ad espungere come insussumibili ‘resti’ tutte quelle esperienze in cui venisse a determinarsi una costitutiva irriducibilità al senso di un “eterno” (libero e necessario, insieme) di cui il mondo reale rimarrebbe una comunque imperfetta e senz’altro rimovibile manifestazione.Evola, dunque, se proprio volessimo riprendere la definizione di Antimo Negri, potrebbe essere definito piuttosto come un gentiliano “infedele”; ma tutt’altro che minore, proprio in quanto sempre fieramente infedele.In quanto consapevole cioè di tutto ciò che ancora non funziona, diciamo così, in Gentile. Il cui ‘atto’ assoluto indica appunto un “farsi” ancora troppo indipendente dalle azioni cui ognuno di noi può di volta in volta decidere di affidare il proprio destino.Evola capisce, poi, che l’Atto gentiliano non è una vera e propria azione; ché non incontra mai una vera e propria alterità (qualcosa di veramente altro rispetto a sé). E d’altro canto, non v’è azione se non per l’incontro con qualcosa di veramente altro, che faccia realmente resistenza, e che dunque ci limiti davvero.Certo, il superamento del dualismo operato da Gentile, sempre sulla scia di Hegel, rischia di impedire al pensiero pensante di costituirsi come reale pensiero di qualcosa; e dunque di qualcosa di necessariamente “altro” dal pensiero medesimo (che non si risolva cioè in semplice pensiero pensato; condannando la dialettica pensante-pensato a lasciar tragicamente fuori dal proprio ‘gioco’ qualsiasi ostacolo reale).Mentre la prospettiva evoliana si propone di salvare il pensiero dal suo farsi mera parvenza di pensiero; dal suo risolversi cioè in qualcosa di risolvibile nel puro fantasma di se medesimo. Evola capisce per primo, insomma, che non v’è “vero pensare” se non nella forma di un vero e proprio “fare”, con tutti i rischi e i pericoli che ciò comporta.Insomma, mi vien da dire che il rapporto tra l’idealismo magico di Evola e l’attualismo gentiliano è un rapporto di figliolanza sano e felice. Dove il figlio riesce finalmente a compiere un vero e proprio parricidio (che è quello che ogni figlio dovrebbe riuscire a fare). Si è veramente figli, infatti, solo del padre che si sia riusciti ad uccidere. Ossia, a superare; a portare oltre quello che lo stesso padre avrebbe potuto pensare di aver definitivamente guadagnato.Per Evola, infatti, la contrapposizione tra Io e Non-Io, così come quella tra pensiero pensante e pensiero pensato, o tra io e mondo, non sono affatto risolvibili in pura parvenza. Nei due poli di tali contrapposizioni, infatti, dal punto di vista dell’idealismo magico evoliano, l’Uno si divide realmente. Ovvero, si fa davvero molteplice, senza fare di questa molteplicità una semplice parvenza di molteplicità.L’Uno, cioè, si spacca in due metà che ricordano molto quelle cui il Visconte Dimezzato sarebbe stato ridotto da una semplice palla di cannone, secondo la lucida fantasia di Italo Calvino. Due metà che devono continuamente ed instancabilmente ricomporsi; ma la cui ricomposizione non può dirsi già da sempre accaduta (come in Hegel e ancora in Gentile) – altrimenti il processo di unificazione si risolverebbe in un mero fantasma rispetto alla già da sempre guadagnata e vera unità.Per Evola, insomma, l’unità è tutta e solamente nel ‘processo di unificazione’ volto a realizzarla. In che modo l’idealismo, nelle sue diverse varianti, può offrire un contributo concreto per think tank come il nostro, impegnati a proporre una visione alternativa a quella del mainstream dominante?Perdonatemi se a questo proposito dissento e prendo in qualche modo le distanze dalla vostra impostazione; ma faccio fatica a riconoscermi in tutti quei discorsi che, ancora oggi, continuano a chiamare in causa una sorta di fantomatico “pensiero unico”.Mi sembra quanto mai opportuno, comunque, iniziare con un’opera di chiarimento preliminare, provando anzitutto a capire cosa si possa intendere con l’espressione “mainstream dominante”. Si parla spesso, e lo sappiamo bene, di pensiero unico, di tendenza omologatrice, di apologia universalistica. E ci si lamenta da più parti per la rimozione di altre tradizioni (diverse da quella dominante, per l’appunto) che sarebbe stata operata da una sorta di non meglio identificato ‘turbocapitalismo’.In verità temo che, paradossalmente, proprio questa idea rischi di farsi espressione di quella tendenza universalizzatrice e ingiustamente omologatrice dalla medesima messa così ferocemente sotto accusa.Si insiste infatti a dire: l’Occidente è questo, il mondo contemporaneo è quello; insomma, si ritiene del tutto “univocamente” che il nostro tempo sia dominato da una sorta di pensiero unico impegnato a cancellare ogni tradizione diversa e non riconducibile alla linea dominante.Ma chiediamoci: si riesce a rendere davvero ragione, in questo modo, di quel che l’Occidente è realmente e necessariamente diventato?E poi ci si chieda: non è che l’Occidente sia molto meno unitario di quel che ci si vorrebbe far credere?Troppo facile, infatti, semplificare lo scenario e dire: l’Occidente è questo, l’Occidente è quello. E se l’Occidente fosse in realtà molto più complesso e articolato di quanto queste semplificazioni vogliono farci credere?Sì, perché nell’Occidente contemporaneo, in verità, si scontrano prospettive spesso completamente antitetiche e in radicale conflitto tra loro. Chiediamoci ad esempio: cosa hanno a che fare il decostruzionismo riconducibile al magistero di Derrida con la teoria dell’agire comunicativo elaborata da Habermas? E cosa l’immanentismo deleuziano con la teoria critica adorniana? Cosa hanno a che fare, poi, l’ontologia severiniana o bontadiniana con il pensiero debole teorizzato da Gianni Vattimo? E cosa l’ontologia di matrice heideggeriana con la filosofia dei giochi linguistici teorizzata da Wittgenstein?Oggi, poi, in un orizzonte più specificamente antropologico si scontrano anche lo specismo e l’antispecismo, così come faticano ad entrare davvero in dialogo la teologia di grandi pensatori come von Balthasar e l’impostazione genealogica e post-nietzschiana di autori come Michel Foucault.Insomma, mi fanno sempre un po’ sorridere queste forme di semplificazione; davvero, infatti, non capisco coloro che riducono con tanta leggerezza un mondo così variegato quale è diventato ormai l’Occidente ad alcuni slogan fin troppo semplici, anche se di facile effetto.Quale sarebbe insomma il “pensiero unico” da cui dovremmo liberarci? E poi, proprio l’idealismo sarebbe la prospettiva filosofica di cui servirsi per liberarsi dal pensiero unico?Ma come? Proprio l’idealismo… che si propone quale perfetta e necessaria conclusione di una lunga vicenda iniziata con Platone ed Aristotele? Una vicenda perfettamente riassunta, peraltro, proprio dalla coerentizzazione operata in primis dallo stesso Hegel (e dai suoi seguaci – tra cui il nostro Gentile).Il fatto è che tutto il Novecento avrebbe continuato a fare i conti con Hegel; vuoi per riformulare e radicalizzare alcuni dei suoi più importanti guadagni speculativi, vuoi per prendere le distanze da un modello così ingombrante e tanto efficace.Dunque, utilizzare Hegel e l’idealismo per liberarsi dal supposto mainstream dominante mi sembra davvero un po’ azzardato o quanto meno improprio; essendo proprio l’idealismo, forse, la più radicale espressione di un mainstream rimasto operante per non pochi secoli di storia. Da Platone a Kant, passando per la novitas cristiana; e dunque per Agostino e Tommaso, anzitutto. Insomma, è difficile credere che ci si possa liberare dal cosiddetto pensiero dominante utilizzando proprio una delle massime espressioni di questo stesso pensiero dominante.Fermo restando – ed è bene tenerlo sempre presente – che, nello stesso tempo, è forse proprio la “complessità” dell’esito idealistico ad aver reso possibile finanche la sua (di questo stesso esito idealistico) utilizzazione in chiave anti-idealistica. Insomma, credo sia opportuno rendersi anzitutto consapevoli almeno di un fatto: che la grande tradizione su cui ci siamo tutti formati (anche Evola!) è talmente potente da avere avuto forse già in sé i semi da cui sarebbe potuto germogliare il pensiero più eversivo, meno digeribile, e magari destinato a metterla tutta in questione… di fatto riconducibile, in primis, a quel geniale ed eretico erede dell’idealismo tedesco ed italiano che è stato Julius Evola.

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